Epicentro Solidale:il ruolo dell’emergenza nella pianificazione del territorio aquilano

IL RUOLO DELL’EMERGENZA

NELLA PIANIFICAZIONE DEL
TERRITORIO AQUILANO

Il ragionamento che vorrei fare,
parte dal concetto stesso di territorio, inteso come esito di
relazioni profonde tra ambiente naturale, costruito ed antropico.
Tali relazioni si stratificano nel corso della storia arricchendosi,
modificandosi fino a costituire l’identità stessa dei
luoghi.

La vallata aquilana è
fortemente segnata dalla tettonica e dalla morfologia, con a nord la
catena del Gran Sasso, degradante tramite una serie di piani carsici
e a sud il ripido allineamento dei Monti di Ocre e del Sirente. Al
centro una depressione riempita da depositi alluvionali, trai quali
scorre l’Aterno.

In questo contesto la vicenda
umana ha realizzato un ambiente costruito che si basava, fino a
qualche decennio fa, su alcuni elementi chiaramente leggibili: i
pascoli naturali e artificiali, il paesaggio agrario a campi aperti,
i borghi accentrati, la città, la viabilità principale
di fondovalle e quella secondaria a pettine.

Il sistema economico si reggeva
sull’economia agro-pastorale e sul commercio. Un’economia
essenzialmente riproduttiva, intrinsecamente connessa alle risorse
locali, impossibilitata dai limiti tecnologici ad incidere sul
funzionamento degli ecosistemi e capace di produrre qualità
territoriale. A scanso di equivoci: un’economia spesso fondata
sulla pura ingiustizia, talvolta con un impatti ambientali
significativi, ma almeno capace di creare coesione all’interno
delle classi sociali.

Il passaggio dall’economia
primaria a quella secondaria ha causato in una prima fase un
profondissimo impoverimento dell’area, con ondate migratorie che
hanno determinato lo spopolamento e il crollo delle funzioni
produttive. In una seconda fase (dagli anni ’60 in poi) si
innescano veri e propri fenomeni di deterritorializzazione:
l’urbanizzazione dell’Aquila cresce di ben 6 volte, invadendo la
pianura alluvionale dell’Aterno, con i nuclei industriali, la
periferia, il percorso autostradale.

Tali trasformazioni sono tutte
contenute nel P.R.G. del ’75, che pianifica con almeno un decennio
di ritardo, la città-fabbrica. Nello stesso momento in cui la
crisi petrolifera e la conflittualità operaia altrove segnano
la fine del “novecento”, la SIT-SIEMENS e altre grandi imprese
fuggono dal nord per invadere nuovi e più tranquilli spazi.

Negli stessi anni inizia la
lottizzazione a nord-ovest della città (proprio a ridosso
della faglia di Pettino). I terreni appartengono in buona parte ai
vecchi ceti parassitari sopravvissuti al ciclo economico precedente,
sulla scena cittadina irrompono le grandi famiglie dei costruttori. I
politici locali, sotto la regia sapiente di padrini altolocati
partecipano alla spartizione del bottino.

Gli ultimi anni vedono, aldilà
della retorica sullo sviluppo sostenibile e sull’Abruzzo regione
verde d’Europa, un continuo deterioramento del patrimonio
territoriale. I pascoli artificiali e i coltivi vengono completamente
abbandonati, i centri montani continuano inesorabilmente a
spopolarsi, o in alcuni casi subiscono la “valorizzazione
turistica” in duplice versione: verde e radical-scic (l’albergo
diffuso di S. Stefano di Sessanio) o di massa (i bacini sciistici di
Campo Felice e Monte Magnola), le aree agricole di pianura sono
invase da microscopici ed inutili nuclei industriali, da cave, da
discariche, infine lo scempio della SS17 nella Piana di Navelli. I
centri storici (sia dell’Aquila che dei paesi limitrofi) perdono
peso e qualità, crescono l’insediamento diffuso e
l’addensamento intorno ai poli commerciali.

Durante le giunte Tempestai il
territorio è frazionato da P.R.U.S.S.T., P.I.T., Piani per la
recettività, viene progettata e realizzata la tranvia di
superficie. L’amministrazione Cialente si differenzia ben poco, con
le mire speculative sull’area di San Sisto. Intanto ai vecchi
palazzinari se ne aggiungono altri.

Questa la situazione prima del 6
aprile: erosione progressiva del territorio, rallentata solo dalle
capacità resistenziali insite nelle caratteristiche locali,
voluta dai potentati economici (in prevalenza legati alla
valorizzazione fondiaria e all’edilizia), favorita da un ceto
politico/amministrativo servile, subita da una società civile
particolarmente chiusa.

Eppure non bastava, ancora non era
possibile tutto! Non era bastato “vincere” il conflitto
capitale/lavoro: trasformare contadini in docili salariati
dell’industria o in piccoli borghesi, deportali dai loro paesi
nella periferia delle città, sfruttarli, colonizzarli ed
infine licenziarli. Non era bastato “vincere” il conflitto
capitale/ambiente facendo scempio di ogni valore.

Il capitale, qui come altrove,
aveva bisogno di una nuova frontiera dove esportare la crisi che
produce: la nuova frontiera si chiama emergenza, la porta per
accedervi è stato il terremoto.

Oltre
quella porta ciò che prima non era politicamente conveniente,
finalmente è diventato condivisibile e perfino “necessario”.
Ora che i valori fisici sono in buona parte distrutti (almeno così
si vuole credere) tutti i fenomeni di degrado territoriale potranno
accelerare e amplificarsi. Prima del terremoto nessuno avrebbe
accettato di essere licenziato dall’oggi al domani, di perdere la
propria attività lavorativa, di essere impossibilitato a
determinare le proprie scelte persino nel agire quotidiano. Nessuno
avrebbe accettato di essere trattato non più come un cittadino
con diritti acquisiti, ma come un mendicante costretto a ringraziare…
quante volte abbiamo letto “Grazie Silvio!”. Nessuno avrebbe
accettato di vivere nella sospensione dei diritti, con continue
limitazioni e controlli, tra colonne di mezzi militari e divise di
ogni genere che girano minacciose tra le nostre miserie. Nessuno
avrebbe accettato che L’Aquila venisse ridotta ad una polarità
lineare, disposta lungo gli assi della S.S. 80 e S.S. 17, gerarchica
e veicolare, con un centro commerciale, una serie di dormitori, una
miriade di casupole sparpagliate in ognidove, un reticolo di strade
ingorgate. Nessuno avrebbe accettato il che il centro storico fosse
espropriato dall’esercito, ibernato in previsione di diventare
proprietà della Fintecna, che provvederà a valorizzarlo
e ad immetterlo nel mercato immobiliare riservato alla grande
borghesia romana. Nessuno avrebbe immaginato che i palazzi della
periferia fossero destinati all’abbandono, perché inutili
dopo la costruzione di migliaia di nuovi edifici, ben più
allettanti perché spacciati vergognosamente come antisismici,
sostenibili, ecologici. Nessuno avrebbe immaginato che l’intera
vallata fosse invasa dal cemento, in una smania per cui nulla si
recupera e tutto si costruisce.

Soprattutto nessuno avrebbe
tollerato che questo catastrofico risultato fosse non tanto il frutto
del terremoto, quanto quello di scelte politico-economiche.

Nessuno avrebbe tollerato che i
morti, i crolli, le difficoltà, la miseria, diventassero
oggetto di arricchimento per le grandi imprese o di propaganda per i
politicanti.

Progettare, tra le macerie di una
città insostenibile, avrebbe potuto assumere il significato di
prendersi cura del territorio, recuperare, riutilizzare il patrimonio
di risorse naturali e culturali, restituire un senso a ciò che
avevamo.

E’ avvenuto esattamente il
contrario. Per realizzare questo disastro non sarebbe bastato neppure
il trauma del terremoto, la paura, lo smarrimento, l’accettazione,
la rassegnazione che esso produce.

Sono serviti il ritorno del
fascismo, il peggior governo pensabile, la complicità delle
opposizioni, la militarizzazione del territorio, i sistemi di
controllo, le tante operazione di lobotomia perpetrate nei campi, lo
stupro culturale del G8, le menzogne, il buonismo, la creazione di
falsi nemici e di falsi miti.

Hanno ottenuto quanto volevano:
una società che ha perso ogni capacità critica,
decisionale, resistenziale, ben contenta di accettare la
frantumazione in tante microscopiche nicchie, fisicamente
rappresentate tanto dalla miriade di casette, che dal piano C.A.S.E.,
dove la dimensione individualista dell’abitare è esaltata
dalla cura degli interni.

Una società che ha
rinunciato alla propria dignità e alla propria dimensione
urbana in cambio di quattro baracche con il televisore al plasma.

E hanno ottenuto un territorio che
ormai è solo merce, è solo la tabula rasa su cui
scaricare ogni funzione economicamente vantaggiosa.

Questo lavoro sporco poteva
riuscire solo ad un esercito del bene, concettualmente inattaccabile:
la Protezione Civile